La deportazione dei Carabinieri di Roma nei campi nazisti

AGI – La razzia e la deportazione dei Carabinieri erano necessarie per poter procedere al rastrellamento e all’invio nei campi di sterminio degli ebrei romani. E infatti, con la radicata presenza dei militari dell’Arma nella capitale, l’operazione originariamente prevista per il 26 settembre 1943 era stata rinviata a ottobre dall’Obersturmbannführer Herbert Kappler, comandante del Sicherheitsdienst, della polizia tedesca e della Gestapo a Roma, l’SS che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’intelligence che aveva portato alla liberazione di Mussolini il 12 settembre dall’albergo-prigione di Campo Imperatore.

Kappler aveva altresì realizzato il sequestro e l’invio in Germania della riserva aurea della Banca d’Italia e aveva ideato e portato a compimento l’ignobile ricatto alla comunità ebraica per farsi consegnare 50 chili d’oro entro 36 ore e non procedere così alla deportazione, che invece avverrà il 16 ottobre. Era, questo, il suo piano B, fatto scattare proprio il 26 settembre, con un inganno criminale, non potendo mettere subito le mani sui circa 12.000 ebrei romani del ghetto di Portico d’Ottavia fino a quando i Carabinieri non fossero stati tolti di mezzo.

Le forze tedesche erano infatti numericamente scarse, i fiancheggiatori fascisti anche, mentre i militari dell’Arma erano apertamente dalla parte della popolazione, oltre che ligi al giuramento di fedeltà al Re: si erano infatti rifiutati di partecipare a retate e rappresaglie, e sugli ebrei avevano un atteggiamento che non era quello delle autorità naziste. Temendo, a ragione, che si sarebbero opposti al rastrellamento, Kappler aveva guadagnato tempo per consentire che le autorità della Repubblica Sociale Italiana appena fondata da Mussolini a Salò effettuassero le loro mosse d’intesa col Reich.

La vendetta sui “traditori”

Il 6 ottobre un foglio d’ordine con protocollo riservato 296 del Maresciallo d’Italia e ministro per la difesa nazionale della RSI Rodolfo Graziani, nel sottolineare con fastidio l’«inefficienza numerica, morale e combattiva» dei Carabinieri, si rivolgeva al generale Casimiro Delfini, facente funzioni di comandante generale, e al generale Umberto Presti comandante della Polizia dell’Africa italiana (PAI), disponendone il disarmo, la consegna in caserma e il divieto di allontanamento dai reparti dei Carabinieri di Roma.

Gli ufficiali che non avessero adempiuto erano passibili di fucilazione e i loro familiari sottoponibili all’arresto, secondo il barbaro Sippenhaft adottato dal Terzo Reich, la responsabilità oggettiva familiare che è ripudiata da qualsiasi ordinamento penale che riconosce la sola responsabilità personale. Il controllo delle caserme di Roma passava quindi ai militi della PAI alla quale veniva assegnato anche il servizio d’ordine nella Città aperta, ed era evidente che fosse per conto dei tedeschi, in attesa che potessero farlo loro. Alla raccolta delle armi, l’indomani, 7 ottobre, provvedono i paracadutisti tedeschi che hanno l’ordine di sparare a vista contro chiunque tenti la fuga.

I Carabinieri vengono quindi portati alla stazione ferroviaria e fatti salire sui treni sostenendo che dovranno prendere servizio nelle caserme del nord Italia, quando invece è già stabilito che oltrepasseranno il Brennero e avranno come destinazione finale i lager nazisti, dove andranno a ingrossare le fila già mostruose degli Internati militari italiani, i soldati disarmati e rinchiusi dopo l’armistizio dell’8 settembre: gli IMI sono un’invenzione lessicale di Hitler, che così può vendicarsi dei “traditori” e non applicare le convenzioni internazionali a tutela dei prigionieri che possono altresì essere utilizzati come mano d’opera forzata nelle fabbriche del Reich.

La resistenza dell’Arma

Non conosciamo il numero esatto dei Carabinieri deportati, una cifra che oscilla tra i 1.500 e i 2.500, poiché la documentazione di fonte tedesca è andata perduta, ma è evidente che qualche notizia su quello che sarebbe accaduto fosse filtrata alla vigilia per consentire di sfuggire alle maglie tedesche. Non a caso buona parte dei Carabinieri la loro scelta di campo, etica prima ancora che militare, l’avevano già fatta.

Il 25 settembre a Bosco Martese, nel Teramano, la prima battaglia campale della Resistenza antitedesca era stata guidata dal capitano Ettore Bianco. Il giovane ufficiale di complemento Carlo Alberto Dalla Chiesa, in servizio nelle Marche, condannato a morte dai tedeschi per la sua attività entrò subito in clandestinità mettendosi alla testa di «bande di patrioti» e responsabile «di intere popolazioni civili»; e, con loro, poco meno di 200 ufficiali che si distinsero nella Guerra di liberazione.

Lo scollamento tra l’Arma e il rinato regime fascista repubblicano è comprovato dalla decisione di neutralizzare i Carabinieri nell’Italia del nord sciogliendoli l’8 dicembre 1943 nella Guarda nazionale repubblicana, esercito di partito sul modello delle SS. Nei lager nazisti, come ricorda l’oggi centenario Abramo Rossi che il 7 ottobre 1943 venne deportato da Roma assieme ai commilitoni, «quando ci chiesero se volevamo essere liberati in cambio del giuramento a Mussolini noi Carabinieri rispondemmo tutti di no».