Le mille vite di Anna Prouse, battaglie e vittorie di una donna di pace

AGI – “A dire il vero ho faticato molto a scrivere, ma l’ho fatto con la speranza che chi leggerà questo libro ne tragga giovamento e si senta umanamente arricchito”. A parlare con l’AGI è Anna Prouse, donna sulla linea di fronte in scenari complessi quali l’Iran e l’Iraq, prima come giornalista, poi come delegata della Croce Rossa a Baghdad e come consulente per il governo americano e italiano a Nassiriya. Franco-italiana, attualmente stabilita a Palo Alto, negli Stati Uniti, Prouse è in Italia per presentare la sua autobiografia intitolata “Della mia guerra, della mia pace”, edita da Harper Collins.

La vita di Anna Prouse è così densa di eventi contrastanti, percorsi imprevedibili, sconfitte dolorose, battute d’arresto, ripartenze e vittorie sorprendenti, che fa venire in mente la fenice, simbolo per eccellenza della vita, della morte e della risurrezione. L’appassionante racconto che lascia il segno – un romanzo di oltre 400 pagine che si leggono col fiato sospeso e tante emozioni in circolo – è il ritratto di una donna in prima linea, dal destino complesso e insolito, metafora di vita di tante altre figure femminili che lottano quotidianamente ai quattro angoli del pianeta.

“Alla fine, quello che mi sento di dire a tutte le donne, è ‘Trust’: abbi fiducia in questa vocina interiore, abbi fiducia in te stessa. Io mi sono sempre preposta di ascoltarla e mi è stata di grande aiuto”, confida l’autrice all’AGI. Molto “testona”, come si definisce lei stessa, dalla vita ha tratto un altro insegnamento che vuole condividere: “Quando qualcosa non va, non forzare la situazione, vuol dire che ci sarà altro per te, anche se in quel momento non ci credi o ci rimani male”.

L’autobiografia si sviluppa seguendo la linea temporale della vita di Anna Prouse, oggi 53enne, partendo dalla sua nascita in una buona famiglia milanese, con una madre, Paulette, francese, davvero feroce, e un padre ‘Johnny’ molto gentile, la sua ancora di salvezza. La coppia aspettava un maschietto e invece è arrivata lei, Anna, nata prematura, “bambina brutta, irrequieta, troppo vivace”, ancora più quando confrontata al fratello, Giorgio, praticamente il figlio perfetto agli occhi della madre, bellissima ma di ghiaccio. 

L’infanzia di Anna è stata segnata da umiliazioni e punizioni quotidiane, docce fredde, retina in testa per domare i suoi capelli ricci, controllo ossessivo del cibo, minaccia della chirurgia estetica per ridurre le sue guanciotte, nessuna gratificazione e soprattutto nessun affetto materno. “Per decenni non ho saputo cosa fosse un abbraccio, cosa significasse tenere qualcuno per mano, un gesto così semplice che a me sembrava strano. Per una madre tutto ciò dovrebbe venire naturale, ma invece lei con me non lo ha mai fatto. Si respirava una tale freddezza in famiglia, ma io non me ne rendevo conto ed è stato solo crescendo che ho capito”, sottolinea Anna.

Un vuoto emotivo e fisico che ha condizionato per molti anni la sua vita e il rapporto con gli altri. “Ricordo ancora di aver tirato indietro la mano la prima volta che il mio ragazzo la prese nella sua. Provavo come un fastidio, come se avesse invaso la mia sfera personale. Ho dovuto imparare a toccare, abbracciare, accarezzare le altre persone, motivo per cui non faccio questi gesti tanto per: per me hanno un significato, un valore davvero importante”, prosegue l’autrice.

Ad ogni presentazione del suo libro, da Milano a Roma passando per Firenze, il pubblico rimane colpito dal suo calore umano, si formano lunghe file per farsi autografare il libro tanto lei si sofferma con ogni lettore pur di regalare una dedica personalizzata e uno scambio autentico. “Da me si aspettano la corazza come conseguenza delle esperienze dure che ho vissuto e invece rimangono sorpresi dal mio calore umano. C’è un momento per mostrare la forza, il coraggio e uno per empatizzare, per esprimere le emozioni. Anche gli iracheni lo hanno capito e mi hanno protetta”, sottoline.

Anna Prouse, esperta di terrorismo e antiterrorismo, di ricostruzione e sviluppo delle identità nazionali, è sopravvissuta a tre attentati in Iraq, due a Baghdad, nel 2003 – nel primo sono morti tutti i membri della sua squadra a bordo della macchina, nel secondo non si trovava in albergo poichè partita poche ore prima in missione nel Kurdistan iracheno – e uno a Nassiriya, nel 2006.

Tra le sue mille avventure, è quasi annegata nell’Eufrate, quando per evitare di percorrere una strada pericolosa è salita col giubbotto antiproiettile su un motoscafo pilotato da iracheni, che si è poi capovolto, salvandosi per miracolo. Peggio ancora, ha scampato una fatwa, una condanna a morte lanciata dal famigerato Muqtada al Sadr, il leader di una delle più sanguinose milizie che dall’Iran aveva deciso di scagliare Allah contro di lei dando l’ordine di ucciderla in quanto nemica dell’Islam.

“Me la sono vista brutta, ma ho deciso di non coinvolgere né l’Italia né gli Stati Uniti, che avrebbero solo aggravato la situazione facendo il gioco di Muqtada, ma piuttosto di chiedere aiuto agli iracheni ed in particolare al capo della polizia di Nassiriya. Lui era comunque un acerrimo nemico dei sadristi che commettevano attentati nel Sud del paese e dovette quindi appellarsi a Qassem Soleimani, il più potente generale iraniano, capo delle forze Quds, l’unico in grado di ordinare a Muqtada al Sadr a non lanciare la fatwa contro di me. Sono stati gli iracheni a salvarmi la vita”, continua Anna.

Guardando indietro, quella che considera la sua più grande battuta d’arresto è stata quel ginocchio spezzato sul campo da tennis, ultima palla di una partita quasi vinta. Un incidente che stroncò definitivamente il suo pronosticato futuro da campionessa e, a soli 16 anni, quello che era allora il suo sogno più grande. “Quell’incidente è stata la tragedia con la T maiuscola, perché ero sola, ancora adolescente e senza gli strumenti per affrontare la fine di un sogno. Da fuori poteva sembrare una banalità e nessuno capiva che andava ben oltre il semplice fatto di non poter più giocare a tennis”, confida la protagonista.

“Per me il tennis era la fuga da casa, da Milano. Mi permetteva di non rimanere bloccata tra quattro mura, col mio dittatore personale (la madre, ndr). Ecco perché è stata la prova più dura per me”, aggiunge Anna, che dopo quell’incidente ha subito otto interventi che l’hanno costretta in casa per tanti anni. A Milano ha frequentato la Scuola tedesca e si è poi laureata in Scienze politiche alla Statale. In fuga dal dolore, fisico e dell’anima, decise di partire verso Est e in quel viaggio trovò la sua vocazione: conoscere luoghi lontani, le persone che le abitano, per comprenderle, raccontarle ed aiutarle.

È accaduto prima in Iran, una terra che Anna conosceva già e sulla quale aveva scritto una guida culturale. Per le autorità non era un’estranea e non aveva problemi di visto. Giornalista di La Repubblica, il 12 settembre 2001, poche ore dopo l’attacco alle Twin Towers, atterrò a Teheran per un servizio fissato da tempo, dedicato a tutt’altra tematica. “Una pura coincidenza:  dalla redazione mi chiesero di allargare il mio reportage alle reazioni in loco all’attentato. Mi ricordo ancora la mia agitazione e quando arrivai a Teheran. Gli iraniani erano inorriditi, altro che bandiere Usa bruciate e gente che inneggiava all’odio”, riferisce.

“Mi consideravo un tramite, gli occhi di chi in Occidente non poteva vedere le reazioni pacate e rispettose degli iraniani. Ma questa mia narrazione, che voleva dare un senso diverso ai fatti di cui ero testimone, non interessava poiché i media volevano altro. Così i miei articoli che dipingevano un Paese troppo blando venivano messi da parte, pubblicati da pochi”, deplora ancora Anna. Per onestà comportamentale e intellettuale non voleva travisare la realtà né cavalcare l’onda, rifiutandosi di dipingere un paese come non era, un paese in cui la gente è colta, le donne studiano e non hanno il burqa, che si indossa in Afghanistan.

Diventata poi delegato per la Croce Rossa, si trovò a dirigere un ospedale da campo a Baghdad, durante la Seconda guerra del Golfo. Già da ragazza Anna faceva volontariato per la Croce Rossa a Milano, e anni dopo nella capitale irachena ha provato la stessa gratificazione ad aiutare gli altri, poiché “aiutando gli altri curavo anche me stessa”. Un mettersi al servizio degli altri che Paulette le rimproverava sempre. Sono stati tanti i motivi di soddisfazione e gioia nei suoi anni di operato in terra irachena, in cui con le sue azioni quotidiane ha dato prova alla popolazione locale che “noi occidentali non siamo tutti invasori che vogliono il male dell’Islam, ma che eravamo anche lì per il bene della gente”.

Anna Prouse è stata poi scelta dal generale americano David Petraeus come capo della ricostruzione di una provincia del Sud dell’Iraq, uno dei luoghi tra i più pericolosi al mondo. Oltre a interventi umanitari e sanitari di ampio respiro, Anna volle anche riportare un senso di normalità così, quando le autorità ultra religiose decisero di bandire ogni forma di divertimento, tra cui i cinema, la Prouse si presentò nelle piazze con un proiettore e un telo. La costruzione dei parchi, invece, consentiva a tutti, donne, uomini, bambini e anziani di dilettarsi in una delle attività più amate in quella parte del mondo: i picnic.

Dagli anni iracheni, Anna si porta dietro anche il ricordo di felici rapporti interpersonali con alcuni suoi collaboratori e colleghi. Tra questi c’era Rajji, il suo autista, un sadrista incallito, che ha capito che Anna non era Satana ma una brava persona, così la mattina a colazione estraeva dalla tasca un kebab unto comprato per strada, dicendole, come da rituale: “Eat Doctora”. Ha anche avuto una particolare attenzione per le donne irachene, ma non sempre le sue iniziative hanno riscosso successo.

“Nel profondo Sud ho insegnato a molte donne a guidare, ma nonostante questa mia scuola di guida, continuavano a farsi accompagnare in macchina da un membro maschile della propria famiglia. Così ho pensato bene di creare una compagnia di taxi di sole autiste donne, ma è stato un flop. Alla fine mi sono sentita dire che non si fidavano delle altre donne. Così ho capito che devono essere loro a decidere per loro stesse, non io”.

Il suo ultimo vice – dopo un membro del dipartimento di Stato americano e un ingegnere iracheno – è stato un donna ingegnere, decisamente la più brava di tutti. “Si chiamava Queen Ur e quella posizione di leadership se la meritava. Solo che appena si è trovata a dover guidare una squadra di iracheni si è trasformata in un piccolo Saddam, diventando crudele, urlando e scimmiottando gli uomini. Quanto ho faticato per farle capire che non doveva perdere le sue caratteristiche femminili, ma che doveva comportarsi da leader gentile, positiva ed empatica”, racconta ancora Anna. Il padre è stato una delle figure maschili che più l’hanno ispirata, fornendole un esempio da seguire.

“Mio padre mi ha insegnato a ragionare, ad essere logica, ma anche ad essere onesta, a non avere comportamenti scortesi e arroganti. È stato proprio grazie al ragionamento che sono riuscita a stare in Iraq così a lungo”, riconosce colei che da bionda, bianca e occidentale in terra inizialmente ‘ostile’ ha imparato a mantenere i nervi saldi, a non farsi prendere dall’isteria, ma ad analizzare con rigore e razionalizzare scenari complessi e pericolosi.

All’inizio è stata dura entrare in un mondo dominato da uomini, all’interno di una squadra militare americana, lei che era donna, civile e perdipiù italiana, arrivata a ricoprire quell’incarico per le sue competenze, merito di un sistema, quello americano, che riconosce la meritocrazia. Ma Anna, pur di farsi accettare, si alzava alle quattro per andare in palestra con loro e alle sei era dietro alla scrivania, imponendosi quello che ricorda come una tortura.

“In un mondo maschile brutale prima devi dimostrare di essere all’altezza. L’ho fatto per qualche mese, mostrando che anch’io ero tosta, come loro. Ci sono riuscita e sono entrata a far parte della squadra, una grande famiglia, e hanno capito che si potevano fidare di me, soprattutto dopo l’attentato, dopo che mi hanno ammazzato tutti in macchina e non ho lasciato il Paese e sono andata avanti a lavorare come se niente fosse. Poi loro per te, se necessario, si buttano anche nel fuoco”, dice ancora colei che in Iraq è stata soprannominata “Honorary Man”.
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Fra le sue tante disavventure, due giorni dopo essere scampata all’attentato ordito contro di lei da Aziz Alwan, il feroce governatore della provincia del Dhi Qar, Anna ha accettato di andare con lui ad una battuta di caccia alla quale era l’unica invitata. “Quando ha tirato fuori il suo fucile, non sapevo dove lo avrebbe puntato. Ho mostrato tutto il mio coraggio, lui si è fidato ed è cosí che sono diventata il suo advisor”, spiega colei che è anche riuscita ad evitare che scoppiasse la guerra a Nasiriyah quando fece da mediatore tra Alwan e il nuovo capo della polizia, il generale Sabah al-Fatlawi, mandato dal Primo Ministro Maliki per arginare i modi brutali del governatore.

“Il livello di testosterone si abbassava in mia presenza. Potevo permettermi di dire e fare cose, proprio in quanto donna. Mi ascoltavano perché donna, mentre se fossi stata un uomo non sarei stata ascoltata, a cominciare da Alwan”, valuta Anna. Mesi dopo, il famigerato governatore del Dhi Qar le disse ridendo: “Sono proprio contento di non essere riuscito a ucciderla perché lei è proprio una gran bella persona”.

A fine giugno 2011 Anna Prouse ha lasciato l’Iraq per dedicarsi ad attività di antiterrorismo in Somalia, Siria, Libia, Mozambico, mentre soffiava il vento delle primavere arabe. Se c’è una frase che riassume l’ingranaggio della sua vita, è proprio: “Al posto giusto al momento giusto”, come quando si è salvata ben tre volte da attentati mirati contro di lei, perdendo però l’udito da un orecchio.

È accaduto anche più di recente, nel 2016, quando, col marito Matt, un marine conosciuto in missione a Baghdad, si è trasferita in America, per andare a lavorare per Google, nella Silicon Valley. La finalità del progetto era quella di connettere, attraverso palloni nella stratosfera, popolazioni remote e povere, private di libertà e di molti altri diritti. Anna aveva come mandato quello di relazionarsi con governi complicati per ottenere la loro autorizzazione.

“Volevo una vita più tranquilla, dove non cercassero di ammazzarmi ad ogni piè sospinto, ma nella Silicon Valley mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. E fu allora che il nemico si presentò. In realtà da tempo soffrivo di emicranie, ma quando vivi in paesi in guerra, minimizzi tutto il resto”, racconta ancora l’interlocutrice, che era già quasi diventata cieca da un occhio, collegando il mal di testa a problemi di vista.

E invece il verdetto fu senza appello: visita oculistica e Tac al cervello hanno evidenziato la presenza di un tumore, della grandezza di una palla da golf, che schiacciava il nervo ottico, troppo grande e piazzato in maniera tale da renderlo inoperabile, pertanto non c’era più nulla fare, a parte aspettare la morte imbottita di antidolorifici per evitare di soffrire.

“Per una lottatrice come me, non avere nulla a cui aggrapparmi fu terrificante. Due settimane dopo fu contattata dal Dottor Chang, un guru dello Stanford Hospital che per mia grande fortuna aveva ricevuto la mia Tac dal pronto soccorso. Mi disse che avrebbe potuto tentare un intervento sperimentale avvertendomi che se non avesse funzionato avrei vissuto una vita da vegetale”, continua Anna. Come spesso in vita sua, rispose di ‘Sì’.

“Mentre in rianimazione ricordo ancora il momento in cui i macchinari iniziarono ad andare in tilt e come tutti si agitavano intorno a me. Mi dissi che era finita ed ero pronta a mollare quando ho sentito la voce profonda di Matt, mio marito dal 2012, che mi implorava di non mollare, che avevano tolto tutto e che era fatta. Se non ci fosse stato lui avrei mollato.

E invece mi sono aggrappata alla vita come un leone ed eccomi ancora qui”, conclude Anna Prouse. In realtà la sua battaglia contro la malattia è proseguita con sedute di radioterapia, sempre con Matt al suo fianco – la prima persona alla quale ha raccontato dei soprusi di Paulette – compagno di vita, un rapporto più unico che raro basato sulla fiducia e sui valori condivisi.