I cento anni a colori della Rapsodia in Blue

AGI – Ennio Flaiano in un aforisma sostiene che oggi anche i capolavori hanno i minuti contati. Nei 16 minuti della “Rhapsody in Blue” di George Gershwin (1898-1937) c’è invece il capolavoro nato per caso che dura da un secolo, da quel 12 febbraio 1924 in cui all’Aeolian Hall di New York veniva eseguita per la prima volta, come ultimo brano in scaletta di una rassegna pretenziosamente intitolata “An Experiment in modern Music”. Gershwin aveva saputo dai giornali, a gennaio, che in programma c’era una sua composizione di jazz sinfonico, come aveva rivelato alla stampa Paul Whiteman che così aveva obbligato il fortunato autore di canzoni ad allargare il respiro della sua vena musicale. Il brano pubblicizzato non esisteva, ma non si poteva perdere la faccia di fronte a una platea così grande.

 

Il ventiseienne autore scrisse allora di getto una versione per due pianoforti, passando i fogli ancora umidi d’inchiostro man mano che avanzava nel lavoro all’arrangiatore del complesso di Whiteman, Ferde Grofé, il quale provvedeva a orchestrare per big band la parte del secondo pianoforte seguendo le indicazioni del compositore (la versione per orchestra sinfonica come oggi la conosciamo sarà realizzata postuma nel 1942). Gershwin era essenzialmente un autodidatta, per quanto talentuoso pianista votato alla musica di consumo dalle profonde venature jazz. Si dirà poi che il primo fortunato tema era stato ispirato nell’immediatezza dal rumore delle ruote del treno nei punti di giunzione dei binari, e non c’è motivo per dubitarne. Il titolo originale doveva essere “American Rhapsody”, che il fratello di George, il paroliere Ira, mutò nel definito “Rhapsody in Blue”. Non ci fu tempo per scrivere anche la parte virtuosistica del finale, a metà tra cadenza classica e improvvisazione jazz, e Gershwin si limitò a segnare il, numero delle battute di pausa dell’orchestra, poi al resto avrebbe provveduto lui al pianoforte, dal vivo. In platea c’erano Igor Stravinskij, Sergej Rachmaninov, Fritz Kreisler, Leopold Stokowski.

 

Un clamoroso successo, che indicò all’America una via da seguire spezzando la sudditanza culturale verso l’Europa e il complesso di inferiorità. Il film «Manhattan» (1979) di Woody Allen non sarebbe lo stesso senza la forte impronta evocativa della Rapsodia gershwiniana, che risuona da un secolo in mille versioni, dal classico al leggero. Immediatamente identificabile dall’iniziale glissando di clarinetto, un autentico lampo di genio dell’autore, che però non sapeva che il clarinetto non poteva fare nessun glissando ma solo una rapida scala cromatica. Si impuntò e quello che fin allora era ritenuto impossibile si rivelò nell’inesplorata bellezza grazie a Ross Gorman che inventò una tecnica particolare. Virtuosismo temutissimo da tutti i solisti, con eclatanti scivoloni, per di più irripetibile perché qualunque compositore da cento anni a questa parte che avesse osato scrivere lo stesso effetto sarebbe passato per “copione”.

 

La Rhapsody in Blue, nelle intenzioni di Gershwin, doveva sintetizzare i caratteri dell’America che attraversava gli anni ruggenti, meltin’ pot di storie e culture autoctone e importate, anime che si fondono nella modernità e all’ombra dei grattacieli dell’American Way of Life e del sogno americano di cui il musicista era esemplare prova vivente: ebreo, figlio di immigrati russi di modesta condizione, appassionato della musica negra degli ex schiavi africani, con stilemi della tradizione occidentale. Come scrisse Leonard Bernstein, che ne è stato straordinario interprete, la Rapsodia è una successione di pagine estemporanee di breve respiro, che puoi smontare e rimontare in un altro ordine senza che perda però di freschezza e forza di seduzione. Gershwin si attenne a uno schema che non l’avrebbe mai più abbandonato nella sua produzione “colta”: ritmo, più lento, più ritmo. Lo ascolti e lo comprendi, senza riuscire quale parte sia più intrigante, trascinante e coinvolgente. Musica pura.

 

Nel Terzo Reich, dove la musica ebraica, nera e contemporanea era considerata “arte degenerata” e bandita da tutto, si diceva che sotto ai dischi di Richard Wagner i gerarchi nazisti nascondessero una copia della vietatissima Rapsodia in Blue. Gershwin ne scriverà un’altra nel 1931, ispirata stavolta dalle frenesie di Manhattan e dalla costruzione dei grattacieli: voleva chiamarla «Rhapsody in Revets», poi sceglierà la più neutra «Second Rhapsody» che, pur essendo più meditata, cerebrale e accurata (peraltro l’orchestrazione è totalmente sua), non avrà e non ha la stessa fortuna di quella del 1924. Della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 si ricorda l’esecuzione in stile hollywoodiano al Memorial Coliseum della «Rhapsody in Blue» con 84 pianisti all’unisono. Un atto di omaggio e un atto d’amore a stelle e strisce.