Intervista ad Anna Voltaggio, in libreria con ‘La nostalgia che avremo di noi’

AGI – Un romanzo breve destrutturato in tredici storie che hanno per secco titolo dei nomi. Personaggi che mutano ruolo da una all’altra trascolorando da protagonisti in comparse. Un puzzle di punti di vista emozionali che sottotraccia prende la forma del monologo interiore collettivo. Con La nostalgia che avremo di noi (Neri Pozza) una voce nuova bussa agli ingressi del  palazzo buono della letteratura italiana optando per la porta dell’originalità.

E rifiutando di classificarsi come “femminile” con la scelta di interpretare anche il sentire degli uomini. Sta suscitando interesse l’esordio in libreria di Anna Voltaggio, anche perché non è affatto un nome sconosciuto nell’ambiente.

Una  professionista della comunicazione editoriale che passa dall’altra parte della barricata: come ci si sente?

Leggermente a disagio, grazie. Entro incerta, in punta di piedi, in un mondo che per altri versi pratico da molti anni. L’approccio è  agli antipodi, come il livello di esposizione. So che sarò e guardata e giudicata, ma da esordiente accetto di provare insicurezza nella mia zona di confort.

Il suo libro racconta la generazione dei quaranta/cinquantenni di oggi puntando a una cifra minimale in termini di riferimenti spazio temporali: perché ha scelto di descrivere più il dentro che il fuori?

Dando parola alla sfera interiore più segreta vorrei far venire a galla un’età vissuta con smarrimento. Senza generalizzare, tratteggio un gruppo di adulti che rispetto ai loro omologhi del passato non hanno riferimenti. Perché la mia generazione è andata nel futuro a mani nude. Non alludo solo alla tecnologia: non abbiamo più trovato sentieri tracciati, tappe esistenziali definite nel privato e nel lavoro, e quasi sempre ripiegato sul piano B perché quello A non era praticabile.

Introduzione dell’euro, crisi economica: tutte le certezze smottate. A chi ci ha preceduto va detto grazie per tante cose, ma non hanno costruito. Noi a 30 anni non potevamo permetterci un appartamento, anche chi veniva dalla borghesia: il precariato era esistenziale e ha inciso nella costruzione dei nostri legami.

Coordinate emozionali: sono quelle che contano di più in letteratura?

Ne offro meno di altro tipo perché mi concentro più su sentimenti ambigui come desiderio e nostalgia. L’esterno è in parte omesso, ma le emozioni non prescindono dalla società. Inoltre la forma breve del racconto limita lo spazio e spinge a utilizzare simboli che rimandino a concetti. Una città fragile come Venezia specchia le fragilità di un  personaggio, una di frontiera come Trieste rappresenta un confine da raggiungere andando incontro al dolore.

Una periferia persa nel nulla era la quinta giusta per un racconto più onirico. Ho cercato di essere precisa soprattutto nel ritmo e nel posizionare le parole dove volevo che fossero, inserendole nel tempo dell’oggi.

I suoi personaggi oscillano tra scelte dettate dalla casualità, se non dal disturbo psichico, e una facciata di normalità: sono così le persone che per ragioni di età stanno prendendo le redini del mondo?

Nessuno dei miei personaggi sarà parte della classe dirigente. Mi incuriosisce l’umanità che sbaglia, la solitudine affamata di vita, la ricerca di qualcosa perche si sente una mancanza. C’è compassione. Ho scritto delle incrinature di persone che tengono in piedi una vita esatta, ma sanno bene di non essere perfette e allineate e che quando deraglieranno finiranno in vicoli ciechi.

Eppure non cambiano le loro decisioni perché è come si sentissero intere nell’errore, si riconoscessero scegliendo uno spazio libero e non conformato a ciò che secondo logica dovrebbe essere. Qualcuno mi ha detto che ho dato ai personaggi maschili tocchi più romantici: non è stato voluto, ma ci tenevo ad essere empatica con entrambi i sessi. Spesso autori uomini hanno fatto parlare le donne, meno il contrario. A me è piaciuto.

Da addetta ai lavori: è vero,  come sostengono le case editrici, che i lettori non amano la brevità dei racconti? Suona strano, in un tempo in cui la comunicazione si è fatta acronimo fino a trasformare ti voglio bene in tvb.

In effetti è raro esordire con dei racconti. Avuto il mio testo in valutazione, alcuni editori hanno mi chiesto di trasformarlo in romanzo infatti, ma non mi sono arresa. Resto innanzitutto una lettrice e la forma breve mi arriva dritta, ferocissima e commovente. Secondo me le storie frammentate spiegano il contemporaneo e se si ricominciasse a proporle dalle librerie arriverebbero ottime risposte.  Non a caso Veronica Raimo e Marco Balzano sono da poco usciti con delle raccolte.

Consigli per aspiranti autori: posto che un libro è per tutti, a chi deve rivolgersi un’esordiente?

Io ho pensato alle mie autrici e ai miei autori preferiti come lettori ideali, ma molti sono morti. A parte gli scherzi, parafrasando Rodari credo che un giovane debba scrivere quello che se non lo scrive gli fa male il braccio.

Due autrici o autori che ama.  E due che l’hanno ispirata.

Amo Clarice Lispector, perché, appunto, tratta di sentimenti ambigui, desiderio, nostalgia, gioco e ricerca dell’amore. E ovviamente mi ispira perché i suoi temi familiari e di amicizia sono anche miei.  Lo stesso vale per Yasmina Reza. Poi amo Daniele del Giudice per la scrittura  suggestiva, profonda e lucida. Ed amo Roberto Bolaño per l’immaginazione.

Un suo personaggio è chiamato Cartesio, ma poi si ritrova a giocare a dadi la sua vita: così vanno le cose?

Cartesio chiude il libro discostandosi da tutti gli altri caratteri,  incerti e in cerca  di qualcosa lasciato in sospeso in un passato che  li condiziona ancora. Lui invece ha un vita serena che non mette in discussione, ma il destino lo sgambetta costringendolo a prendere coscienza che il coraggio di un istante determina il risultato dell’esistenza di tutti noi, in termini di  pace interiore e  mancanza di rimpianti.  Perché ci vuole una dose di audacia per guardarsi in faccia.