La Sicilia degli anni ’60 ne “I giorni dell’oleandro” di Stornello

AGI – C’è tanta Sicilia, tanta “isola” nelle pagine de “I giorni dell’Oleandro”, romanzo di Gianni Stornello edito da Laurana. Un racconto d’amore con incursioni storiche e uso del dialetto che rende ancora più autentici i personaggi. Il lettore viene condotto in una Sicilia degli anni ’60, fra consuetudini e regole ferree famigliari che ti condizionano la vita, contraddizioni sociali e un po’ di classismo.

Quel classismo e quelle rigidità che impediscono a due giovani di amarsi finendo in una vita ben diversa da quella sognata per poi compiere un giro e forse, ritrovarsi. Forse. A Collecalandra tutti sanno tutto, tutti conoscono le vite degli altri. E Gianni Stornello intreccia le storie di questo paesino in provincia di Ragusa, quel Collecalandra appunto, che poi in realtà sarebbe Ispica. “C’è da fare una precisazione infatti – spiega all’AGI l’autore – la storia è ambientata in Sicilia, nel sud-Est dell’isola e quindi effettivamente nell’area di Ispica che dopo il terremoto fu ricostruita sul colle Calandra. Da qui, lo spunto per il nome del Paesino. Quindi, tanto immaginario questo comune non è”.

Proviamo allora a raccontare qualcosa di questo romanzo, senza fare spoiler, come si dice ormai in gergo: “Due giovani liceali alla vigilia degli anni 60 si fidanzano, un amore giovanile nato sui banchi di scuola. Ma – spiega l’autore – emerge subito una differenza che crea delle difficoltà ovvero, un problema di livello sociale: Lena infatti è la figlia del maresciallo dei carabinieri mentre Duccio è figlio di madre vedova dell’alta borghesia terriera. Quella del ragazzo è una famiglia facoltosa, possiede le terre e le terre a quell’epoca erano fondamentali, ci sono parenti notai insomma è una persona che per il periodo e il contesto considerato viene, definita agiata.

Tra l’altro, lui è promesso sposo alla cugina, anche lei è figlia unica e possidente e secondo le tradizioni dell’epoca, se due cugini si univano la famiglia consolidava il patrimonio. Quella fra Duccio e Lena è una relazione fortemente osteggiata soprattutto dalla famiglia di lui. Ma i ragazzi si frequentano lo stesso, pur con tutte le difficoltà del caso. A un certo punto il padre di Lena viene trasferito a Napoli e la ragazza, fra la seconda e la terza liceo, deve seguire la famiglia. I due giovani si giurano eterno amore e promettono di attendere il tempo giusto. Si scriveranno tutti i giorni. E Duccio promette che verrà a trovare Lena tutti appena potrà condividendo la promessa di scrivere una lettera al giorno. Promessa che Lena onora ma vede che alle sue lettere non c’è mai risposta.

Comincia a farsi strada in lei, il pensiero che probabilmente lui l’ha dimenticata anche per cedere alle pressioni della famiglia e sposarsi con la cugina Dorina secondo i piani prestabiliti. Passano gli anni, Lena costruisce una sua vita a Napoli si sposa con Silvio, direttore di banca, ha una figlia, Marianna, che insegna Storia dell’arte ed è appassionata di archeologia. Insomma, si rassegna. Anni dopo la partenza dalla Sicilia, con la figlia e il nipote Marco, a lei particolarmente legato, decide di andare a fare una vacanza nei luoghi dove è cresciuta. Viene riconosciuta da una compagna di scuola e ritrova anche altri suoi compagni. Questa frequentazione la porta a conoscere il motivo per il quale quelle lettere non sono mai arrivate e quindi la verità, sconvolgente su Duccio”.

Lena capirà tutto, e si renderà conto di quanto invece, il suo innamorato che le regalo’ un fiore d’oleandro (secondo una leggenda, l’oleandro porta male), fu davvero sfortunato… E cosi, la verità viene a galla alla fine, con dispiacere ma anche con tanta dolcezza. Le cose non sono come sembrano. A volte sono peggio. E non c’è solo la storia di Lena e Duccio che probabilmente, anticipa l’autore, è davvero esistito. C’è la vicenda di due gemelli, un paesano e un ministro, e la storia del ritrovamento di una nave bizantina che finisce in una controversia fra sovrintendenze. Insomma c’è tanto materiale, frutto di passaparola, bisbiglio, documentazione. E c’è l’uso del dialetto nei dialoghi: “Nel romanzo faccio uso del dialetto siciliano, scritto in tondo e di quello napoletano scritto in corsivo. L’ho fatto anche per connotare meglio i personaggi. E ho deciso di usare la tecnica del ‘pastiches’ mescolando la lingua nazionale al dialetto come elemento caratterizzante dei personaggi, diversificandoli, in particolare quelli meno scolarizzati”.

Elementi autobiografici? “Direi di no – aggiunge l’autore – anche se sono arrivato alla convinzione che quando uno scrive qualcosa, finisce sempre con mettere dentro qualcosa di suo. è inevitabile. Che sia una ricetta di cucina, una poesia, la lista della spesaqualcosa di personale dentro c’è”.

E l’oleandro? “L’oleandro è una pianta bellissima, pericolosa, velenosa. E c’è una vulgata molto interessante e poco diffusa, secondo la quale – dice ancora Stornello – l’oleandro porta male. E questo nasce dal fatto che una volta l’oleandro era un fiore funerario che si usava al posto dei crisantemi. Esiste questo tipo di convinzione limitatissima e poco diffusa, ma c’è ed io l’ho messa in bocca a un mio personaggio che poi condizionerà anche Lena e un po’ anche tutto il romanzo. Perchè Lena, con il fiore di oleandro che porta con sè per tanti anni, farà i conti fino alla fine”.

Un romanzo ‘siciliano’ a tutti gli effetti, “che testimonia l’amore che ho per la mia terra – spiega ancora lo scrittore – dell’attaccamento alla zona in cui vivo, quella di Ispica, con tutte le sue specificità. è Il cosiddetto sud-est siciliano che è considerato molto singolare, una sorta di isola dentro l’isola perchè ci sono delle particolarità, delle specificità linguistiche e gastronomiche, di costumi e abitudini diverse dal resto della regione. E questo probabilmente è dovuto alle diverse dominazioni che hanno inciso più o meno profondamente a seconda dei luoghi della Sicilia. Nell’isola ci sono stati praticamente tutti: bizantini, spagnoli, arabi. Ho fatto tesoro di queste diversità e caratteristiche e poi ho scritto”. E il risultato è quello di un romanzo che si legge ‘volando’ sugli ambienti e sui personaggi, quasi a sentirli vicini, quasi a volerli consolare o a condividerne anche il sorriso.